Sport e mondo dell’impresa a confronto
Andrea Pisanu, una Vita nel Calcio
La vita lavorativa di uno sportivo professionista ha una data di scadenza molto più breve rispetto a quella di un qualsiasi altro lavoratore. Nel calcio, a meno che tu non sia un portiere come Gianluigi Buffon, che gioca ancora per il Parma a 43 anni, di solito la tua carriera entra in fase di chiusura tra i 30 e i 35.
In compensazione, va detto che inizia anche molto da giovani (io, ad esempio, sono partito a 16 anni) e ti permette di girare tantissimo, facendo molta esperienza. Io sono stato al Cagliari, al Bologna, al Siena, alla Varese, al Verona e a Parma. Quest’ultima è stata l’esperienza più significativa per me, durata ben sette anni, in cui mi piace dire che sono arrivato “bambino” e ne sono uscito da uomo.
Ad ultimo, ma non per importanza, ho trascorso l’ultimo periodo da professionista all’estero, a Montreal, che mi ha aperto gli occhi sulle grandi potenzialità di questi mondi calcistici magari meno blasonati dell’Europa o del Sud America, ma che hanno tanta voglia di crescere, innovare e investire.
Parlavo di data di scadenza. Quando il fisico non regge più i ritmi dei campionati della prima serie, un giocatore deve avere la preveggenza di reinventarsi. Quando si decide di rimanere nel mondo del calcio, alcuni diventano commentatori sportivi, altri consulenti o manager per nuove stelle che stanno emergendo, altri dirigenti delle società in cui hanno militato, e infine altri ancora diventano allenatori.
Io ho scelto questa strada quando, a Malta, ho chiuso la mia carriera da calciatore. Decisi infatti di trasmettere la mia esperienza e la mia passione ad altri come me, che amano questo splendido sport. Per due anni ho allenato nella First Challenge League, la Serie B maltese, e poi sono approdato alla massima serie, la Premier League, in cui ora alleno il Silema Wanderers.
Cosa cambia dalla Vita da Calciatore a quella da Allenatore
La prospettiva cambia tantissimo quando fai lo switch tra l’essere calciatore e l’essere allenatore. Nel primo caso, tu sei superfocalizzato solo nel dare il massimo nel tuo ruolo, e limiti al minimo ogni pensiero che esula da questo. Nel secondo caso, invece, hai mille cose da tenere a mente. Il momento in cui tutto noi vediamo un allenatore mentre si sgola a bordo campo davanti alle telecamere è solo la classica punta dell’iceberg.
Lui deve relazionarsi i giocatori, con lo staff tecnico, con i medici, con la dirigenza, con i tifosi, con i giornalisti. In sintesi, rispetto al passato, al giorno d’oggi egli è diventato un vero e proprio manager. Come in un’azienda. Deve possedere, perciò, nozioni di comunicazione, di leadership, di gestione delle risorse umane, di strategia, di management.
Deve essere in grado di togliere il meglio dal materiale che ha a disposizione, deve andare a fondo nello studio dei suoi competitor (le altre squadre del campionato), del tempo e del clima in cui ci si allenerà o si giocheranno i match, tenendo conto degli infortuni, del carico di stress della squadra, dei punti da fare partita dopo partita per ottenere una determinata posizione alla fine del campionato.
Per questo deve elaborare fin dal principio un modello che prevede una forte base comune che prevede una miscela di rispetto, di passione e di divertimento per il suo team. Sopra di questa vanno poggiati dei pilastri che sono l’etica del lavoro e la creazione di un ambiente sano, in cui l’agonismo sia presente, ma mai esasperato all’eccesso.
Questo aspetto vale per lo sport esattamente come per un’azienda. Infatti tanti allenatori, non solo del calcio, sono diventati poi speaker, coach e autori di libri che vengono letti dai CEO e dai manager delle imprese di tutto il mondo.
La mia filosofia, che fino ad ora ha sempre pagato, si fonda su di un concetto che ho sentito da Marcelo Bielsa, che ho sposato pienamente: “La vera nobiltà sta nel valorizzare al meglio quello che hai. Se tu hai dato tutto, devi essere felice e soddisfatto al di là del risultato”. Una grande lezione per tutti, in qualsiasi campo della vita.
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